mercoledì 31 dicembre 2014

AVVELENAMENTO DA RODENTICIDI

L’avvelenamento da rodenticidi anticoagulanti nel cane e nel gatto rappresenta sicuramente una delle intossicazioni più frequenti: si tratta infatti di sostanze tossiche molto diffuse a causa della necessità di proteggere i raccolti, i beni e la salute umana da topi e ratti. I rodenticidi costituiscono una categoria molto varia di sostanze ma, purtroppo, hanno una caratteristica in comune: sono causa di avvelenamento spesso ad esito fatale. I rodenticidi vengono allestiti in esche dalle forme e preparazioni più svariate: polveri, pellets, bocconi aromatizzati, concentrati da sciogliere in acqua e “polveri traccianti”, che imbrattano il mantello quando vengono sparse lungo i percorsi frequentati dai ratti.



L’intossicazione da rodenticidi può colpire tutti gli animali domestici e selvatici, ma il cane, che per il suo carattere errante, la curiosità e la voracità è portato ad ingerire anche le esche più nascoste, è la specie maggiormente esposta. Inoltre cani e gatti, ma anche predatori selvatici quali volpi e rapaci, possono consumare le carogne dei roditori morti avvelenati da queste sostanze oppure di animali ancora vivi ma che hanno ingerito un’esca.
Le più comuni fonti di intossicazione sono rappresentate dalle esche lasciate a disposizione degli animali perché disseminate senza raziocinio, non rimosse a fine derattizzazione oppure utilizzate in campagna per la lotta contro le volpi.
Un famoso cartone ha messo in luce alcune caratteristiche dei roditori: sono animali molto intelligenti, sospettosi e abitudinari, che spesso riescono a distinguere il cibo dalle esche: per queste ragioni sono stati inventati rodenticidi incolori, insapori, che imbrattano il mantello per consentirne l’assunzione o che provocano la morte dopo diverso tempo dall’ingestione per non destare sospetti negli altri ratti.

I rodenticidi anticoagulanti possono essere classificati in prodotti di:
1) prima generazione: (warfarin, dicumarolo) hanno tossicità moderata, ma sono molto pericolosi in caso di assunzioni ripetute.
2) seconda generazione: (brodifacum, bromadiolone, clorfacinone) hanno tossicità elevata; sono quindi pericolosi anche in caso di assunzione singola e sono in grado di determinare un’intossicazione secondaria conseguente all’ingestione di roditori avvelenati.
3) terza generazione: hanno tossicità molto elevata; sono quindi molto pericolosi anche in caso di assunzione singola.

I rodenticidi anticoagulanti inibiscono un enzima indispensabile per la coagulazione del sangue: per questo motivo l’avvelenamento da rodenticidi provoca emorragie anche gravi in seguito a traumatismi di lieve entità, a volte anche solo legati ai normali movimenti dell’animale. I sintomi si manifestano in seguito ad esposizioni ripetute o dopo 2-3 giorni dall’ingestione di una dose singola dei prodotti di seconda e terza generazione. I rodenticidi anticoagulanti determinano una graduale deplezione delle riserve di vitamina K, indispensabile per convertire in forma attiva alcuni fattori della coagulazione, in particolare i fattori II, VII, IX e X.
Generalmente si distinguono due forme di intossicazione: una forma acuta caratterizzata da morte improvvisa senza segni premonitori ed una forma subacuto-cronica, dall’esordio spesso insidioso. Il paziente può presentare una sintomatologia molto varia che include depressione, letargia, inappetenza, pallore delle mucose, petecchie ed ecchimosi, sanguinamento gengivale, presenza di sangue nel vomito (ematemesi), nelle urine (ematuria), nelle feci (melena), tosse e difficoltà respiratorie in caso di emorragia polmonare, cecità in caso di emorragia retinica, paresi e paralisi in caso di ematomi a carico del midollo spinale, convulsioni in caso di emorragia cerebrale, zoppia in caso di emorragia articolare, collasso, shock e morte. L’intossicazione acuta causa la morte dell’animale in seguito alla rottura di un grosso vaso che provoca consistenti emorragie in organi vitali come cervello, polmoni, cuore. L’intossicazione subacuto-cronica, più frequente, è caratterizzata da sintomi aspecifici, comuni cioè a molte altre patologie, che possono quindi essere facilmente sottovalutati o confusi, come anoressia, abbattimento, facile affaticabilità, difficoltà respiratorie, pallore delle mucose, e formazione di ematomi in corrispondenza delle salienze ossee, dove l’animale è maggiormente probabile che l’animale “sbatta”.
La diagnosi presuntiva di avvelenamento da anticoagulanti dipende dall’anamnesi, dai segni clinici compatibili e dalla conferma di alcune prove di laboratorio. Particolarmente utile è il profilo coagulativo, che permette di valutare il PT (Tempo di Protrombina o di Quick) ed il PTT o APTT (Tempo di Tromboplastina Parziale Attivata). Il PT è il parametro più sensibile poiché risulta positivo anche nelle fasi iniziali dell’intossicazione, quando l’animale spesso non manifesta ancora alcuna sintomatologia. Ulteriore supporto alla diagnosi è fornito da esami radiografici ed ecografici con i quali si possono mettere in evidenza eventuali stravasi intracavitari.
Nel caso in cui si veda l’animale assumere l’esca o si sospetti la sua ingestione, il Medico Veterinario può valutare la possibilità di indurre il vomito.


Una cagnolina avvelenata da rodenticidi anticoagulanti arrivata
 in urgenza presso la nostra Clinica.
 Con orgoglio possiamo dire: Salva!!

Nei pazienti avvelenati la terapia prevede l’utilizzo di vitamina K1 (fitomenadione) alla dose di 5 mg/kg per via endovenosa o rettale 1-2 volte a 12 ore di distanza. Le vie intramuscolari e sottocutanea sono controindicate a causa della minore efficacia della terapia e del maggiore rischio di formazione di ematomi nel punto d’inoculo.
Nei casi particolarmente gravi può essere necessario ricorrere ad una trasfusione di sangue: sono infatti necessarie 6-12 ore perché si abbia la sintesi di nuovi fattori della coagulazione.
L’animale deve poi essere tenuto a riposo, tranquillo ed al caldo.
La terapia di mantenimento con vitamina K per via orale alla dose di 2-5 mg/kg, possibilmente insieme ad alimenti ricchi di grassi che ne aumentano l’assorbimento, deve protrarsi per almeno un mese, ed è di fondamentale importanza per il successo terapeutico e per evitare ricadute.
Il PT deve essere rivalutato tra le 12 e le 24 ore dall’inizio della terapia e giornalmente per i tre giorni successivi. A distanza di 48-72 ore dalla fine della terapia con vitamina K1 si misura di nuovi il PT: se i tempi di coagulazione risultano ancora alterati si continua la terapia per altri 7-14 giorni.

Articolo a cura della Clinica Veterinaria Borgarello

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martedì 23 dicembre 2014

Ecografia della Prostata nel Cane e nel Gatto

 

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La prostata è una ghiandola annessa all’uretra maschile e la sola ghiandola annessa al sistema genitale nel cane.
Nel cane la prostata è costituita da un corpo voluminoso che circonda completamente l’inizio dell’uretra e la parte terminale del collo della vescica.
Il corpo prostatico è bilobato: i due lobi sono separati da un rafe mediano e circondati da una capsula.
La presenza delle feci nell’intestino disturba la visualizzazione della struttura da esaminare, è necessario che l’animale sia a digiuno e che sia praticato lo svuotamento mediante clisma.
L’ecografia permette di valutare la forma, le dimensioni e la struttura della prostata, oltre alle strutture adiacenti come i linfonodi della regione pelvica.
La prostata può essere facilmente visualizzata attraverso l’approccio ventrale con il paziente in decubito dorsale. La vescica rappresenta un punto di repere molto utile ai fini dell’identificazione dell’organo.
In sezione trasversale la prostata si presenta come una struttura ovale bilobata.
In sezione longitudinale appare invece di forma ellissoidale.
La capsula prostatica appare spesso visibile come una linea iperecogena che circonda il tessuto ghiandolare. L’ eco struttura della prostata è omogenea, finemente granulosa e ha un’ecogenicità da media a elevata.
Il tragitto dell’uretra è visibile all’interno della ghiandola. In sezione trasversale appare come una struttura ipoecogena o anecogena arrotondata nel piano mediano della ghiandola.
In sezione longitudinale forma una struttura lineare ipoecogena che attraversa la ghiandola in tutta la sua lunghezza.
La dimensione della prostata è correlata alla taglia del cane e aumenta con l’aumentare dell’età del cane ( circa 4-5 cm in un cane adulto di 20 Kg ).
Il volume prostatico diminuisce negli animali castrati.
Il drenaggio linfatico della prostata avviene attraverso i linfonodi iliaci mediali e ipogastrici.

Articolo a cura della Dott.ssa Daniela Ferrari

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martedì 16 dicembre 2014

Nefropatia cronica felina (CKD): terapia

ckd copertina

Concludiamo oggi il discorso sulla nefropatia cronica felina parlando di terapia.

La malattia renale cronica felina tende invariabilmente ad evolvere ad insufficienza renale cronica, una condizione in grado di compromettere in maniera importante il benessere dell’animale. Una diagnosi precoce, con corretta stadiazione, e un precoce intervento terapeutico possono allungare notevolmente i tempi di sopravvivenza: diviene fondamentale, in soggetti nefropatici, programmare ed ottimizzare il management. Durante questo iter bisognerà porre particolare attenzione ad alcuni segni clinici quali: disidratazione, dimagrimento, perdita di massa magra, vomito, astenia (riduzione della forza muscolare) o la presenza di comportamenti anomali (vocalizzazioni ingiustificate, disorientamento, tendenza a “sporcare”al di fuori della cassetta).

La terapia dell’insufficienza renale è volta a correggere e preservare l’equilibrio idro-elettrolitico e acido-basico del gatto oltre che ad interferire coi fattori di progressione della malattia quali iperparatiroidismo, ipertensione e proteinuria. I cardini del trattamento sono: adeguato e mirato regime dietetico, somministrazione di chelanti del fosforo (carbonato di lantanio, sali di alluminio, sali di calcio, sevelamer ) in caso di iperfosforemia persistente, amlopidina in caso di ipertensione sistemica e ace-inibitori in caso di proteinuria.

cachessia ckd

Estrema importanza riveste la gestione delle complicanze gastro-enteriche da CKD soprattutto in stadio 3 e 4: disoressia, nausea, vomito, gastroduodenite emorragica e colite emorragica. Frequente, poi, è il riscontro di anemia microcitica ipocromica legata a piccole perdite ematiche croniche. I suddetti segni clinici sono riferibili all'uremia e all'ipergastrinemia secondarie a diminuita clearence renale. Il trattamento è sintomatico e consiste in un regime dietetico fondato su alimenti con proteine ad elevato valore biologico, in grado di diminuire la concentrazione di urea nel sangue. A livello farmacologico si utilizzano antiacidi (ranitidina, famotidina), antiemetici (metoclopramide, maropitant) e appetizzanti (mirtazapina).

assunzione acqua

Un altro aspetto basilare è il mantenimento di un corretto stato di idratazione: una limitazione d'accesso all'acqua e/o perdita di liquidi, come avviene in corso di vomito, diarrea o febbre, sono in grado di peggiorare velocemente le condizioni cliniche dell'animale e predisporlo ad una riacutizzazione dell'insufficienza renale. La correzione dello stato di disidratazione avviene mediante fluidoterapia endovenosa con apporti decisamente superiori a quelli di mantenimento; una somministrazione a lungo termine, invece, può essere eseguita per via sottocutanea (Ringer Lattato), da prendere in considerazione soprattutto in soggetti poliurici o con disidratazioni ricorrenti (75-150ml ogni 1-3 giorni a seconda della necessità).

I disordini acido-base rappresentano spesso una complicanza da gestire: man mano che progredisce la nefropatia aumenta l'incidenza di acidosi metabolica. Quest'ultima interferisce col metabolismo proteico, promuovendo il catabolismo e, pertanto, favorendo l'avanzare della patologia. Di fronte ad un' acidemia di lieve entità può essere sufficiente la correzione del regime dietetico; qualora questa non bastasse, si procede con l'integrazione di alcalinizzanti quali citrato di potassio e carbonato di sodio per via orale. Se si riscontra un PH < 7,2 o bicarbonati <12mEq/L, bisogna intervenire per via endovenosa e sottoporre l'animale a stretto monitoraggio, con particolare attenzione alla concentrazione di potassio.

anemia ckd

Infine in corso di anemia il trattamento terapeutico varierà a seconda del quadro ematologico e della causa sottostante. In presenza di microcitosi ovvero di anemia da sospetto sanguinamento, si ricorre ad antiacidi quali ranitidina e famotidina, farmaci antistaminici antiH2. Nelle anemie normocromiche normocitiche non rigenerative, invece, è indicato l'apporto esogeno di eritropoietina (EPO) poiché il danno renale porta a carente produzione endogena della stessa. L'introduzione di EPO viene preso in considerazione con ematocrito <20 e chiari segni legati all'anemia. Il dosaggio è 100UI/Kg tre volte a settimana per via sottocutanea fino al raggiungimento di un ematocrito pari o superiore a 30-35%: questo vale se si utilizza eritropoietina ricombinante umana. Oggi però viene consigliata la darpoietina che, avendo un'emivita più lunga, consente un'unica somministrazione settimanale alla concentrazione di 1µg/Kg fino al livello di PCV desiderato poi ogni 2 o 3 settimane come mantenimento. Di fronte ad uno stato anemico è infine importante monitorare il metabolismo del ferro e ricorrere ad una sua integrazione qualora le condizioni lo richiedano: la migliore via di somministrazione è quella intramuscolare e si utilizza solfato ferroso (50mg/gatto ogni 3-4 settimane).

A cura della dott.ssa Martina Chiapasco della Clinica Veterinaria Borgarello.

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martedì 9 dicembre 2014

Avvelenamento da Glicole Etilenico

L’avvelenamento da glicole etilenico nel cane e nel gatto provoca gravi intossicazioni, spesso mortali.
Il glicole etilenico è una sostanza incolore, inodore e dal sapore dolciastro contenuta nei liquidi antigelo per i radiatori delle automobili, nei liquidi di sviluppo fotografici e nei solventi per vernici: si tratta quindi di un prodotto facilmente reperibile e particolarmente appetibile, soprattutto per il cane. Proprio per quest’ultima ragione l’avvelenamento è molto più frequente nel cane rispetto al gatto, meno attratto per natura dal sapore dolce.
glicole etilenico 1
Il glicole etilenico viene rapidamente assorbito attraverso il tratto gastro enterico, causando la comparsa della sintomatologia clinica in tempi piuttosto rapidi.
All’interno dell’organismo il glicole etilenico va incontro ad un processo di “bioattivazione”: si formano cioè composti molto più tossici rispetto alla molecola di partenza che creano gravissimi danni agli organi in cui vengono trasformati e distribuiti.
I sintomi clinici possono essere suddivisi in tre stadi:
  • stadio 1: sintomi nervosi
Il glicole etilenico assunto per via orale viene rapidamente assorbito dal tratto gastro-enterico e si distribuisce nel sangue provocando in un intervallo di tempo variabile, compreso fra 30 minuti e 12 ore dall’ingestione, la comparsa di gravi sintomi clinici simili a quelli legati all’assunzione di sostanze alcoliche nell’uomo. Prevalgono segni neurologici quali depressione, protrusione della terza palpebra nel gatto (l’occhio sembra “bianco”), atassia (movimenti incoordinati), convulsioni, ipereccitabilità, ipotermia (diminuzione della temperatura corporea). Sono anche presenti segni legati all’irritazione gastro enterica come nausea, vomito e anoressia (perdita dell’appetito) ma anche alterazioni del sangue a cui conseguono poliuria (aumento della produzione di urine), polidipsia (aumento della sete) e disidratazione.
  • stadio 2: sintomi cardio-polmonari
Se l’animale sopravvive, a 12-24 ore dall’ingestione sopraggiunge un temporaneo miglioramento seguito da sintomi cardiorespiratori come tachipnea (aumento della frequenza degli atti respiratori), tachicardia (aumento della frequenza cardiaca), congestione polmonare con possibilità di edema, depressione e anoressia.
  • Stadio 3: sintomi renali
24-72 ore dopo l’ingestione si manifestano sintomi legati all’insufficienza renale acuta: anoressia, vomito, ptialismo (perdita di saliva), ulcere orali, grave acidosi (diminuzione del pH del sangue), iperazotemia (aumento delle scorie azotate nel sangue), coma e morte.
Gli elementi che consentono di arrivare alla diagnosi sono:
  • aumento ematocrito a causa della disidratazione
  • grave acidosi metabolica (pH inferiore a 7,3)
  • danno renale: aumento della creatinina e dell’azotemia
  • aumento della glicemia
Fra le diagnosi differenziali bisogna considerare l’avvelenamento da etanolo e da marijuana, che possono provocare atassia e sintomatologia nervosa simile. Devono anche essere prese in considerazione le varie cause di insufficienza renale acuta e cronica.
La terapia deve essere instaurata tempestivamente, idealmente entro 3 ore dall’intossicazione nel gatto e 8 nel cane. Come accennato in precedenza, infatti, il glicole etilenico, una volta ingerito, viene trasformato all’interno dell’organismo in sostanze estremamente tossiche, che provocano danni gravi ed irreversibili a carico di diversi organi, reni in particolare.
Entro due ore dall’ingestione si può provocare il vomito, effettuare una lavanda gastrica e somministrare carbone attivato.
Se si interviene più tardivamente si può in alcuni casi ricorrere a due antidoti: l’etanolo e il 4-metilpirazolo; tuttavia anche l’utilizzo di queste sostanza non è scevro da complicazioni.
L’etanolo può inibire l’enzima che trasforma il glicole etilenico nei suoi metaboliti tossici, prevenendo o riducendo gli effetti della fase renale. Se la terapia viene iniziata entro 8 ore dall’intossicazione la prognosi può essere favorevole; dopo 18 ore il trattamento è invece inutile.
L’uso del 4-metilpirazolo è controindicato nel gatto a causa della mancanza di dati circa il suo impiego in questa specie. In entrambi i casi, oltre all’inattivazione del glicole etilenico, è necessario correggere i disturbi elettrolitici, acido-base e la disidratazione.
Le terapie sopraelencate sono da valutare caso per caso e a discrezione del medico curante.
La prognosi dell’animale intossicato risulta di non semplice formulazione, poiché la gravità dipende dalla quantità di liquido ingerito e dal tempo intercorso tra l’assunzione del tossico e l’intervento del veterinario.
Non sempre la tossicosi è mortale, soprattutto in caso di assunzione di dosaggi non elevati; residua tuttavia un grave deficit della funzionalità renale che può compromettere irreversibilmente la qualità della vita dell’animale.
necrosi tubulare da glicole etilenico
A costo di sembrare ripetitiva ribadisco ancora una volta..Attenzione! Se avete animali ricordatevi che sono curiosi, golosi, giocherelloni, e che tante sostanze, anche banali e molto diffuse nelle nostre case e nei nostri giardini possono rappresentare un gravissimo pericolo per la loro salute ed incolumità.
Articolo a cura dello Staff della Clinica Veterinaria Borgarello
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martedì 2 dicembre 2014

Crescita congiuntivale aberrante nel coniglio

La crescita congiuntivale aberrante del coniglio è nota anche come iperplasia congiuntivale circonferenziale, membrana congiuntivale o pseudopterigio. La condizione è in realtà poco conosciuta e sembra essere limitata al coniglio. La patologia si manifesta con la presenza di una membrana vascolare rosa e carnosa che origina dalla periferia della cornea e si estende verso il centro, fino a formare una membrana che ricopre l’occhio, lasciando scoperta solo una piccola apertura centrale. Generalmente questa membrana non aderisce alla cornea sottostante per cui può essere facilmente spostata utilizzando un bastoncino con la punta di cotone. Il tessuto rosa rappresenta una piega della congiuntiva che cresce in direzione centripeta dalla congiuntiva bulbare al limbo. All’esame oftalmologico spesso non sono presenti altre alterazioni per cui la vista è mantenuta, fino a che la progressione della membrana non occlude l’apertura centrale. Dal punto di vista istologico la lesione consiste di congiuntiva normale che riveste la superficie interna ed esterna della membrana e si pensa che derivi da un eccesso localizzato di collagene congiuntivale. Può essere colpita qualunque razza di conigli, ma i conigli nani e i loro incroci potrebbero essere predisposti.

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I proprietari sottopongono il coniglio alla visita per un cambiamento nel colore dell’occhio, che appare via via più arrossato. Normalmente questo cambiamento avviene nell’arco di alcune settimane, ma il coniglio non manifesta fastidio o dolore e non presenta altre alterazioni patologiche (come una diminuzione dell’appetito).

La terapia locale non è né efficace nel prevenire l’ulteriore crescita della membrana, né nel determinare la sua regressione. Se la condizione è monolaterale e la riduzione della vista nell’occhio colpito non causa alterazioni comportamentali nel coniglio, può rimanere non trattata. L’occhio dovrebbe essere lavato regolarmente per evitare l’accumulo di muco e di detriti che possono predisporre ad ulteriori infezioni.

Negli animali colpiti gravemente, che presentano problemi di vista, che mostrano alterazioni del comportamento o nei casi bilaterali, si consiglia l’intervento chirurgico. Non è sufficiente asportare la membrana, perché purtroppo questa tende a ricrescere nell’arco di poche settimane. E’ necessario invece asportare la membrana e quindi suturare il margine tagliato alla congiuntiva bulbare e alla sclera subito dietro al limbo. Dopo l’intervento è consigliata l’applicazione di una pomata locale di ciclosporina per ridurre l’ulteriore rischio di ricrescita.

A cura della Dott.ssa Valentina Declame

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