L’avvelenamento da rodenticidi anticoagulanti nel cane e nel gatto rappresenta sicuramente una delle intossicazioni più frequenti: si tratta infatti di sostanze tossiche molto diffuse a causa della necessità di proteggere i raccolti, i beni e la salute umana da topi e ratti. I rodenticidi costituiscono una categoria molto varia di sostanze ma, purtroppo, hanno una caratteristica in comune: sono causa di avvelenamento spesso ad esito fatale. I rodenticidi vengono allestiti in esche dalle forme e preparazioni più svariate: polveri, pellets, bocconi aromatizzati, concentrati da sciogliere in acqua e “polveri traccianti”, che imbrattano il mantello quando vengono sparse lungo i percorsi frequentati dai ratti.
L’intossicazione da rodenticidi può colpire tutti gli animali domestici e selvatici, ma il cane, che per il suo carattere errante, la curiosità e la voracità è portato ad ingerire anche le esche più nascoste, è la specie maggiormente esposta. Inoltre cani e gatti, ma anche predatori selvatici quali volpi e rapaci, possono consumare le carogne dei roditori morti avvelenati da queste sostanze oppure di animali ancora vivi ma che hanno ingerito un’esca.
Le più comuni fonti di intossicazione sono rappresentate dalle esche lasciate a disposizione degli animali perché disseminate senza raziocinio, non rimosse a fine derattizzazione oppure utilizzate in campagna per la lotta contro le volpi.
Un famoso cartone ha messo in luce alcune caratteristiche dei roditori: sono animali molto intelligenti, sospettosi e abitudinari, che spesso riescono a distinguere il cibo dalle esche: per queste ragioni sono stati inventati rodenticidi incolori, insapori, che imbrattano il mantello per consentirne l’assunzione o che provocano la morte dopo diverso tempo dall’ingestione per non destare sospetti negli altri ratti.
I rodenticidi anticoagulanti possono essere classificati in prodotti di:
1) prima generazione: (warfarin, dicumarolo) hanno tossicità moderata, ma sono molto pericolosi in caso di assunzioni ripetute.
2) seconda generazione: (brodifacum, bromadiolone, clorfacinone) hanno tossicità elevata; sono quindi pericolosi anche in caso di assunzione singola e sono in grado di determinare un’intossicazione secondaria conseguente all’ingestione di roditori avvelenati.
3) terza generazione: hanno tossicità molto elevata; sono quindi molto pericolosi anche in caso di assunzione singola.
I rodenticidi anticoagulanti inibiscono un enzima indispensabile per la coagulazione del sangue: per questo motivo l’avvelenamento da rodenticidi provoca emorragie anche gravi in seguito a traumatismi di lieve entità, a volte anche solo legati ai normali movimenti dell’animale. I sintomi si manifestano in seguito ad esposizioni ripetute o dopo 2-3 giorni dall’ingestione di una dose singola dei prodotti di seconda e terza generazione. I rodenticidi anticoagulanti determinano una graduale deplezione delle riserve di vitamina K, indispensabile per convertire in forma attiva alcuni fattori della coagulazione, in particolare i fattori II, VII, IX e X.
Generalmente si distinguono due forme di intossicazione: una forma acuta caratterizzata da morte improvvisa senza segni premonitori ed una forma subacuto-cronica, dall’esordio spesso insidioso. Il paziente può presentare una sintomatologia molto varia che include depressione, letargia, inappetenza, pallore delle mucose, petecchie ed ecchimosi, sanguinamento gengivale, presenza di sangue nel vomito (ematemesi), nelle urine (ematuria), nelle feci (melena), tosse e difficoltà respiratorie in caso di emorragia polmonare, cecità in caso di emorragia retinica, paresi e paralisi in caso di ematomi a carico del midollo spinale, convulsioni in caso di emorragia cerebrale, zoppia in caso di emorragia articolare, collasso, shock e morte.
L’intossicazione acuta causa la morte dell’animale in seguito alla rottura di un grosso vaso che provoca consistenti emorragie in organi vitali come cervello, polmoni, cuore. L’intossicazione subacuto-cronica, più frequente, è caratterizzata da sintomi aspecifici, comuni cioè a molte altre patologie, che possono quindi essere facilmente sottovalutati o confusi, come anoressia, abbattimento, facile affaticabilità, difficoltà respiratorie, pallore delle mucose, e formazione di ematomi in corrispondenza delle salienze ossee, dove l’animale è maggiormente probabile che l’animale “sbatta”.
La diagnosi presuntiva di avvelenamento da anticoagulanti dipende dall’anamnesi, dai segni clinici compatibili e dalla conferma di alcune prove di laboratorio. Particolarmente utile è il profilo coagulativo, che permette di valutare il PT (Tempo di Protrombina o di Quick) ed il PTT o APTT (Tempo di Tromboplastina Parziale Attivata). Il PT è il parametro più sensibile poiché risulta positivo anche nelle fasi iniziali dell’intossicazione, quando l’animale spesso non manifesta ancora alcuna sintomatologia. Ulteriore supporto alla diagnosi è fornito da esami radiografici ed ecografici con i quali si possono mettere in evidenza eventuali stravasi intracavitari.
Nel caso in cui si veda l’animale assumere l’esca o si sospetti la sua ingestione, il Medico Veterinario può valutare la possibilità di indurre il vomito.
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in urgenza presso la nostra
Clinica.
Con orgoglio possiamo dire: Salva!!
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Nei pazienti avvelenati la terapia prevede l’utilizzo di vitamina K1 (fitomenadione) alla dose di 5 mg/kg per via endovenosa o rettale 1-2 volte a 12 ore di distanza. Le vie intramuscolari e sottocutanea sono controindicate a causa della minore efficacia della terapia e del maggiore rischio di formazione di ematomi nel punto d’inoculo.
Nei casi particolarmente gravi può essere necessario ricorrere ad una trasfusione di sangue: sono infatti necessarie 6-12 ore perché si abbia la sintesi di nuovi fattori della coagulazione.
L’animale deve poi essere tenuto a riposo, tranquillo ed al caldo.
La terapia di mantenimento con vitamina K per via orale alla dose di 2-5 mg/kg, possibilmente insieme ad alimenti ricchi di grassi che ne aumentano l’assorbimento, deve protrarsi per almeno un mese, ed è di fondamentale importanza per il successo terapeutico e per evitare ricadute.
Il PT deve essere rivalutato tra le 12 e le 24 ore dall’inizio della terapia e giornalmente per i tre giorni successivi. A distanza di 48-72 ore dalla fine della terapia con vitamina K1 si misura di nuovi il PT: se i tempi di coagulazione risultano ancora alterati si continua la terapia per altri 7-14 giorni.
Articolo a cura della Clinica Veterinaria Borgarello
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Come si fa a introdurre la vitamina K liquida per via rettale ? con una siringa senza ago ?
RispondiEliminaAnche nei gatti viene assorbita per via rettale ? Io ho avuto risultati con iniezioni sottocutanee e intramuscolari.
RispondiElimina